Non cambia di una virgola
Davvero l’esattezza del punteggiare si addice alla scrittura come strumento di elegante precisone, e con effetti di senso moltiplicati quando esprit de géométrie e esprit de finesse si compongono in mirabile unità.1
(1) Paolo, è arrivato Michele. (2) Paolo è arrivato, Michele.
Quando si dice “non cambia di una virgola” forse si dovrebbe pensare meglio al senso di quel che si è pronunciato. Nell’esempio sopra è evidente che tra (1) e (2) chi era in ritardo per la cena cambi a seconda di dove “la piccola verga” venga posizionata. Per questa ragione l’esattezza della punteggiatura è emblematica: basta davvero una virgola perché cambi completamente il senso di quello che scriviamo. Contemporaneamente però le regole che stabiliscono il suo uso sono poco vincolanti e, a differenza di altre norme grammaticali (si pensi alle concordanze, agli usi verbali, all’ortografia…), sono percepite come più sfuggenti.
Probabilmente alla base di questo controsenso c’è un equivoco sull’uso della punteggiatura, la quale erroneamente viene considerata uno strumento per riportare nello scritto il ritmo dell’oralità, mentre in verità offre un appoggio alla lettura silenziosa, la quale è doppiamente lontana dal parlato, in quanto è un processo legato alla scrittura e pure distante dalla declamazione ad alta voce. Per capire la differenza, provate a prendere una poesia, magari La Chimera di Dino Campana: leggetela in silenzio, poi ad alta voce e poi ascoltate un attore o un altro ancora che la leggono per voi.
L’ambiguità evidente di (1) e (2) è una caratteristica (e una risorsa) non solo dell’interpunzione, ma del linguaggio in generale, ed è utilissima nei messaggi pubblicitari quando si vuole affermare qualcosa senza risultare troppo sfacciati.
(3) Più bianco non si può.
L’enunciato (3) è la risposta alla richiesta mai espressa “Vorrei qualcosa che faccia venire il mio lenzuolo ancor più bianco (pulito)” e significa che il prodotto in questione primo fa tornare i panni bianchi e secondo, implicitamente, che non esiste altro detersivo che possa rendere i nostri panni più bianchi; in pratica sappiamo che se usiamo quel detersivo raggiungiamo il massimo risultato, non ne esiste un altro capace di meglio. Questo meccanismo di presupposizione, insieme a tanti altri, è solo un esempio di come molto spesso, ancor più nelle conversazioni che nei testi scritti, il messaggio passato attraverso l’implicito sia maggiormente importante di quello diretto. Ma senza essere maliziosi come i pubblicitari, possiamo riportare altri esempi quotidiani in cui usiamo la forza dell’implicito per comunicare:
(4) “Hai visto Filippo?” “C’è la sua bici davanti al bar”.
Non essendo assunto dal bar come “buttadentro”, l’interlocutore che risponde dà un’informazione non richiesta che potrebbe considerarsi superflua, ma che comunque soddisfa l’interlocutore che pone la domanda. Questo perché nelle conversazioni non esiste solo la componente verbale come veicolo del messaggio, ma pure quella non verbale (di cui parlammo qui) e il contesto di riferimento. Il contesto è un insieme di informazioni condivise tra i parlanti e si può suddividere in:
- Globale (dato a priori) in cui rientrano l’età, il sesso, il ruolo sociale dei parlanti…;
- Locale (attivato in base alla conversazione) in cui rientrano la gestualità, il cotesto (le informazioni che sono state esplicitate nel dialogo in atto), il codice usato, inteso sia come lingua (italiano, piemontese, inglese…), sia come registro (formale, informale, aulico, volgare…).
La linguistica pragmatica è la materia che si occupa di studiare il contesto (e non solo) e il suo modo di influenzare le conversazioni. A differenza dei due interlocutori di (4), leggendo in maniera decontestualizzata (come in effetti è) il loro scambio, noi potremmo non sapere che Filippo fa il cameriere e che quindi la sua bici è davanti al bar come ogni mattina perché sta lavorando; o che aveva un appuntamento con qualcuno organizzato dai suoi amici preoccupati che non ci andasse; per questo ci appare più evidente l’inesattezza della risposta.
L’enunciato (4) è un esempio che dimostra l’enorme differenza che intercorre tra un testo scritto e un testo orale, una conversazione. Questa differenza diamesica, cioè legata al mezzo di comunicazione adottato per trasmettere il messaggio, spesso è stata banalizzata come una differenza di registro, come se il parlato corrispondesse per forza a un uso basso della lingua e lo scritto coincidesse a un uso alto. In realtà è facile intuire la fallacia di quest’assunto, ipotizzando l’esistenza di un parlato alto, un parlato basso, uno scritto alto e uno scritto basso. Pensando all’italiano, la lingua non si è evoluta in tutti e quattro gli ambiti allo stesso modo e con gli stessi tempi: per esempio la casella del parlato basso fino all’arrivo della radio e della tv, era occupata dai dialetti e quella del parlato alto dall’italiano che oggi chiamiamo standard. Sul fronte dello scritto è interessantissimo notare invece come l’evoluzione della consapevolezza di registro diversa sia stata molto più lenta. Le lettere di soldati al fronte o di immigrati nel mondo che scrivevano alle famiglie sono testimonianze di semianalfabeti che non avevano competenza di un possibile uso alto o basso della lingua (tanto meno scritta), per loro l’italiano o il dialetto avevano solo una possibilità che tentavano di trasmettere e se non potevano oralmente, trascrivevano. Per decenni l’unico italiano scritto è stato considerato quello insegnato a scuola, quindi, almeno come aspirazione, alto. L’italiano scritto basso, inteso come una forma scritta d’uso comune, ha iniziato a diffondersi in modo massiccio con gli appunti e i diari degli studenti, con i “+” al posto dei “più” e i “x” al posto dei “per” e ha avuto una diffusione esponenziale e inaspettata con i mezzi digitali: le chat, gli sms, le mail, i post, ecc. Per noi ora è normale scrivere (digitare) un messaggio e siamo perfettemente consapevoli delle differenze che intercorrono tra uno scambio in chat con amici o parenti e una mail scritta per lavoro.
Lo sviluppo tutto sommato recente dell’italiano scritto basso preoccupa i cosiddetti grammar nazi, gli intergralisti della lingua che vedono nello sviluppo di questa nuova forma, uno svilimento della forma scritta alta, non capendo, forse perché qualcuno ogni tanto confonde, che i contesti d’uso sono differenti. Questa confusione però permette anche di capire che parlando di linguaggio non sia possibile pensare a queste quattro varietà come compartimenti stagni, ognuna chiaramente influenza ed è influenzata dagli altri. Per questo lo scritto della comunicazione mediata dal computer (CMC) ha alcune caratteristiche dell’oralità (i turni tra i parlanti, la semisincronia, la poca pianificazione…) e per questo spesso noi usiamo nelle conversazioni espressioni metaforiche che ricalcano regole dello scritto (“sto dicendo tra virgolette”, “è tempo di mettere un punto a questa storia”, “detto tra parentesi”…).
Il convergere di scritto e parlato nel digitale offre sicuramente nuovi spunti sulle possibili evoluzioni della punteggiatura e sul senso della scrittura/lettura in sé: alcuni ipotizzano che gif, emoticon ed emoji andranno pian piano a prendere il posto dei segni d’interpunzione. Effettivamente l’uso emotivo della punteggiatura offre davvero nuove sfumature e possibilità, tutte sempre con lo stesso obiettivo: ridurre al minimo la distanza tra gli interlocutori e avvicinarsi sempre di più alla completezza espressiva della comunicazione faccia a faccia; che non significa eliminare le incomprensioni, i fraintendimenti, i giochi di parole, le metafore e l’ironia, ma avere a disposizione strumenti diversi, adatti a ogni tipo di contesto, che ci permettano di raggiungere gli stessi obiettivi relazionali: non essere fraintesi, non provare disagio e quindi sentirci esattamente noi stessi.
Note e bibliografia.
- [1] Mortara Garavelli, Bice, Prontuario di punteggiatura, Editori Laterza, Roma-Bari, 2004, p.74. ⇑
- Bazzanella, Carla, Linguistica e pragmatica del linguaggio. Un’introduzione, Editori Laterza, Roma-Bari, 2007.